Mi chiedete quale sia il ruolo degli intellettuali in questo momento. Secondo me non c’è un ruolo, perché non c’è un intellettuale così schematizzato. Ma eviterei di impostare il problema in questo modo. Dico così: l’intellettuale che elabora i dati della società o di una società e poi li ripropone decodificati secondo la propria norma, anche in questa situazione non ha un ruolo specifico e non si pone diversamente da ogni altro cittadino. I dati che percepiamo, che ci vengono offerti, sono spesso aberranti, falsificati, sovrapposti, o mistificati; noi dobbiamo cercare di cogliere dalla situazione quegli elementi di fondo che ci permettano di raggiungere qualche possibile conclusione. Una conclusione, secondo me, è la seguente: non si deve rifiutare lo stato, perché lo stato in sostanza siamo noi, coi nostri doveri e coi nostri diritti e non vedo perché si debba rifiutare la comunità che serve me e che io servo. Perciò proporre candidamente di “essere contro lo stato” mi sembra un’aberrazione o un semplicismo molto stravagante e astratto. Io non sono un politologo o un teorico specializzato. Con semplice ma convinta decisione ripeto che lo stato è questo... che io posso modificarlo o intervenire perché le sue strutture funzionino e di conseguenza siano rovesciate o composte le magagne astutamente mantenute. Invece il riferimento contro cui scontrarsi è il governo. Essere contro il governo in maniera totale, ripeto “totale” mi sembra una necessità urgente e indiscutibile. È il governo che dobbiamo incalzare senza tregua e senza alcuna fiducia; è il nuovo e deludente rapporto che le sinistre hanno in questi giorni col governo che dobbiamo mettere in discussione fino in fondo. Perché la situazione attuale è condizionata da questo rapporto anomalo delle sinistre non con lo stato ma col governo. Il problema di fondo è il governo, e il rapporto delle sinistre con esso. La lotta armata, qualsiasi forma di guerriglia civile presuppongono l’uso della violenza, e di identificare la propria metodologia con l’uso della violenza. Ma la violenza come metodo di lotta è proto-novecentesco e ha trovato i suoi ultimi, stentati seppur gloriosi risultati in Occidente con la Comune. Dopo, la sinistra non ha più cercato di modificare o di aggiornare le proprie tecnologie di lotta e non ha sostituito l’uso della violenza tradizionale con nuovi strumenti di lotta, che mettessero il potere di fronte a novità più aggressive. Invece il potere, una volta capito che la violenza era l’arma dell’opposizione, se ne è appropriato e ne ha fatto subito un suo mezzo, tracotante e sempre più tecnologico, in modo che per quanta violenza potrà mai esprimere l’opposizione, il potere ne esprimerà sempre una quantità maggiore. Dobbiamo invece trovare nuovi sistemi di opposizione, più articolati, tecnologizzati, moderni; perché siamo nel 2000. Questi nuovi sistemi dovrebbero sul serio permetterci di contrastare il potere e le sue istituzioni e di metterli di fronte a novità non previste, in grado di decretarne la crisi. Un riferimento c’è ed è il seguente: non illudersi, in ogni caso e sotto nessuna forma, che la violenza (la quale alle volte attira la borghesia radicaleggiante o certe fasce più irritate o più approssimative dell’emarginazione) possa rappresentare qualche cosa di utile, sia pure momentaneamente. La violenza nella nostra situazione e nel nostro mondo è sempre qualcosa di illusorio e di inutile, di vecchio, che mette in moto delle contro-implicazioni ormai stabilite, codificate, con conclusioni inevitabili. La violenza o le violenze singole servono esclusivamente a chi è al potere. Questo credo non si discuta. Possiamo dire che l’intellettuale, se ha un ruolo, lo deve superare per agire come cittadino. E questo è il solo modo politico per poter fare qualcosa di politico. Non lasciandosi travolgere da quelli che sono i “vuoti” persistenti e in movimento, prodotti dall’angoscia esistenziale, dal rifiuto della politica e della lotta politica; con la spinta ambigua di ritornare al privato, per rinchiudersi nel lavoro e nelle proprie stanze. Certo, questa posizione differisce da quella di Gianni Scalia, anch’egli animatore del “Cerchio di gesso”. Egli, infatti, sostiene che il dissenso va riorganizzato partendo dall’alto e che deve essere portato a esaminare i sintomi con una tattica prospettica rivolta al futuro. Chiede dunque un affidamento al tempo, per avere l’agio di indagini teoriche a lunga gittata. Dobbiamo avere l’impegno di partecipare direttamente e rapidamente all’evolversi di una situazione che è drammatica proprio in questo momento. E dobbiamo parteciparvi facendo scelte come cittadini che vivono in una comunità. Ripeto: a tutti noi sono richieste scelte precise, naturalmente per quanto lo consenta la situazione. Scelte che ci impegnino fino in fondo e con il rigore consentito dalla ragione.



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